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Con ringraziamenti e scuse a Jean Van Hamme e Ted BenoitMaggio 2002
(racconto premiato nel concorso nazionale “L’Italia vista dal treno” indetto dalla Società Dante Alighieri)

Stazione merci di Bressanone, Italia.

E’ una calda notte di inizio settembre; una brezza leggera spezza la soffocante, persistente calura estiva. Gli unici suoni chiaramente distinguibili sono il susseguirsi dei rapidi rintocchi della campanella d’attesa e il canto di grilli lontani. Nel cielo, a ridosso delle colline, si nota ancora un leggero bagliore rosso, proprio dove il sole, qualche ora prima, era tramontato. I diamanti delle stelle si distinguono appena dalle luci della composta cittadina di Bressanone che si staglia evanescente e nebbiosa all’orizzonte.

Mi sento padrone della stazione.

Gli anni trascorsi sulle strade ferrate mi hanno permesso di imparare a memoria gli orari di tutti i treni merce del paese, che sembrano aspettare un mio ordine per mettersi in movimento. Comodamente seduto su un blocco di cemento, nascosto nella penombra di un vagone, attendo l’arrivo del 405-22B diretto a Milano, arpeggiando con la mia chitarra. Le note emesse dallo strumento si fondono all’indifferente brusio notturno che proviene dalla strada statale.

La mia esecuzione viene però interrotta dall’apparire di un’ombra che scivola incerta tra gli enormi container impilati poco lontano. Incuriosito, sicuro che non si tratti di un ferroviere (di sera usano la torcia) e tanto meno di un compagno di viaggio (vista l’andatura insicura), inizio a seguirla. La sagoma nera – deve trattarsi di un uomo a giudicare dal cappello – stringe in mano un’ingombrante valigia e – riesco a distinguerlo nonostante l’oscurità – indossa un soprabito indubbiamente troppo pesante per la stagione.

Avvicinandomi lo sento, ansimante, mormorare fra sé:
“Non ho l’età per giocare al bandito braccato.. E ora come continuo?”.
Il rumore di uno strofinio tra stoffa e legno indicano che ha concluso la sua camminata sedendosi sullo scalino di un vagone. Uscendo dall’oscurità alle sue spalle, impaziente di scoprire il motivo di una così inattesa presenza, lo apostrofo chiedendo:
“Noie con la polizia, signore?”.
Voltandosi di scatto e alzandosi in piedi l’uomo assume un atteggiamento diffidente e interrogativo.

Illuminata dall’azzurra luce lunare noto immediatamente una bocca sottile spuntare da una folta, ma comunque curata, barba rossa. La fronte spaziosa, imperlata di sudore, è attraversata da un ciuffo ribelle che scende quasi fino agli occhi. Sotto la giacca si intravede un cravattino blu che risalta da un’impeccabile camicia appena stirata.
“Lo so, non sono fatti miei…” – continuo – “Neanche a me gli sbirri piacciono un granché!”.
Lo sconosciuto balbetta un imbarazzato:
“Lei chi è?”.
Prontamente rispondo sorridendo:
“Nicola Pellegrin, signore. Viaggiatore professionista da più di vent’anni. Posso chiederle dove conta di andare conciato in quel modo?”.
Il suo abbigliamento mi pare totalmente fuori luogo e solo ora noto uno strappo nei pantaloni in puro Shetland, all’altezza del ginocchio, forse provocato da un salto troppo audace.

Apparentemente rasserenato l’uomo risponde:
“A Milano, se possibile”.
“Allora le consiglio di prendere quel treno”, replico indicando due fari che appaiono in lontananza seguiti da un fischio acuto.
“Lo stavo aspettando anch’io. Faccio come le rondini, scappo verso Sud all’arrivo del freddo.”.

Sempre diffidente l’uomo si incammina al mio fianco domandando: “E’ sicuro che quel treno passi per Milano?”.Annuisco, mentre cerco del tabacco per farmi una sigaretta. Giunti al vagone, aiuto il mio insolito compagno di viaggio a salire, esortandolo ad affrettarsi prima che un maledetto ferroviere venga a ficcanasare dalle nostre parti. Come previsto il treno lascia la stazione e finalmente le mie orecchie assaporano il familiare suono delle ruote contro i binari che, di traversina in traversina, scandisce ormai da anni la mia vita.

Sovrastato dal rumore dei vagoni grido al mio compagno: “Non si ferma fino a Verona, potete aprire!”.Come risollevato dalla notizia l’uomo spalanca il portellone della carrozza esclamando: “Che puzza!”.
“E’ un ex-vagone bestiame” lo rimbecco io “E’ normale che non profumi di rose! Forse è meno comodo di una carrozza di prima classe, ma qui almeno non ci sono controllori che bucano i biglietti”.

Dalle fenditure tra le tavole di legno del vagone entra un’aria pungente che sembra infastidire il mio compagno; il treno ha ormai raggiunto la sua velocità massima. I prati e le colline fuggono davanti ai miei occhi; i paesi sembrano solo dei veloci lampi di luce. Penso alle migliaia di persone che mi sono scivolate davanti agli occhi, preparandosi al riposo dopo una normale giornata lavorativa. E’ stata proprio la monotonia della routine quotidiana, unita ad un pizzico di sfortuna, che mi ha portato a condurre una vita il cui unico scopo è il viaggio.

Accarezzo con lo sguardo la mia Yamaha, regalo ricevuto in adolescenza e ormai consumato dall’irriguardoso susseguirsi dei giorni. E’ adagiata in un angolo, vicino al costoso bagaglio dell’improvvisato fuggitivo. Immagino le giornate di lavoro affogate nel grigiore di un ufficio per riuscire ad acquistare un simile oggetto. Correre, affannarsi, odiare se stesso e gli altri per incrementare i propri guadagni o avere l’illusione del Potere? Non fa per me; mi accontento di essere come un impercettibile e infinitesimo granello di sabbia inserito nello straordinario meccanismo degli intrecci e delle interazioni umane alle quali non posso che opporre il silenzio di chi sa di non sapere.

Non ho poi fatto una scelta così assurda: ripenso a tutte le persone che ho incontrato, osservato e, forse, conosciuto. Ogni volto è una vita diversa, un differente tentativo di capire, amare e soffrire, che si conclude però nello stesso identico modo, portando fiumi di esperienze a confondersi nell’indistinguibile mare del passato. Cosa può allora dare un senso a questo continuo e indifferente pulsare? Di sicuro nulla di quello che mi sono lasciato indietro.

Questa sera però mi sento quasi importante, forse perché ho avuto un ruolo decisivo nell’insignificante partita di una manciata di esistenze: cosa sarebbe successo al mio nuovo compagno se non l’avessi aiutato? Sembra incredibile come un piccolo gesto possa condizionare la vita di migliaia di individui che probabilmente non conoscerò mai, come i poliziotti che stanotte rinunciano al loro sonno per inseguire l’uomo seduto accanto a me.

Le mie riflessioni vengono interrotte dall’uomo che domanda con un’aria tra l’imbarazzato e il divertito:
“Quando arriveremo a Milano? “.
“Domani, verso le otto”, rispondo con naturalezza. Trascorre qualche minuto mentre alcune nuvole coprono l’esile spicchio lunare.

E’ il mio turno di chiedere un favore: “Senta, non è che ha un po’ di whisky nel suo bagaglio? Ho la gola secca come il cuore di un banchiere”.
Sorridendo apre la valigia e mi porge una fiaschetta argentata commentando:
“Ve la devo!”

Appoggio lentamente l’imboccatura metallica alle labbra, inclinando leggermente il contenitore. Un dolce sapore mi riempie la bocca.
“Ottimo! Deve avere almeno dodici anni”, esclamo ristorato restituendo la fiaschetta, ormai quasi vuota, al legittimo proprietario. Forse la cosa che mi è mancata di più durante i miei vagabondaggi è il vino, che ho potuto bere solo in rare occasioni.

Dopo aver ringraziato per la gentilezza, deciso a fare un sonnellino, mi sdraio sulla paglia sparpagliata tra le tavole del pavimento, suggerendo al mio nuovo amico di fare altrettanto. Non sembra ascoltare il consiglio, perché resta seduto, con la schiena appoggiata al portellone, mormorando parole che il vento disperde lontano.

Al mio risveglio scopro che è crollato anche lui, sotto il peso della stanchezza. Ora dorme beatamente in un angolo del vagone. Ci si può abituare a tutto, anche a quello che non avresti mai pensato di potere, o di dover fare.

E’ già l’alba. I paesi si risvegliano, le auto iniziano a circolare. Uno studente fermo al passaggio a livello di Affori incrocia, interrogativo, il mio sguardo. Il sole si è ormai alzato sopra le colline inondando tutta la regione di una luce vitale. Con uno strattone delicato ma vigoroso sveglio il mio compagno.
“Presto arriverà a Milano Sarà meglio che scenda prima dell’arrivo in stazione, appena il treno rallenterà per curvare”.
Coi capelli arruffati e un’aria ancora assonnata mi risponde con un poco convinto:
“D’accordo!”.

Una volta rialzatosi infila una mano in tasca, prende il portafogli ed estrae una manciata di banconote da venti euro dicendo:
“Signor Pellegrin, io”.
“Si tenga i suoi soldi, signore”, lo interrompo freddo.
“Mi basta il piacere della compagnia di un vero gentiluomo, che si porta appresso un whisky di altrettanta qualità”.
Quasi sorpreso da questo complimento l’uomo mi porge la mano.

Mi rendo conto di quante cose vorrei domandare alla persona che sto salutando, attratto forse dalla curiosità di conoscere il motivo della sua fuga e il luogo dove spera di potersi rifugiare, oppure dal desiderio di raccontargli la mia storia. Magari avere uno scambio di ricordi e di emozioni, uno spiraglio sulle nostre vite così diverse ed ora, per uno di quei tanti giochi del destino, così ravvicinate. Ma ormai non c’è più tempo. Il treno comincia lentamente a rallentare affrontando una larga curva. Un segnale rosso indica la nostra prossimità alla stazione. All’orizzonte alcune ciminiere emanano un fumo grigiastro mentre il mio compagno si prepara al salto.

“Vada adesso!” urlo deciso. Lo vedo toccare il suolo, sbilanciarsi, scivolare e fermarsi, mento a terra, sul terriccio che costeggia le rotaie. La valigia, apertasi a causa dell’urto, disperde vestiti ovunque.

Torno ad accarezzare le corde della chitarra sedendomi tra la paglia. La sagoma del viaggiatore è ormai un puntino confuso tra i metallici artigli della città quando il treno, subito dopo la fermata, riprende velocità.

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