Ricordi di Scuola

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Con scuse ad Alessandro Manzoni e, nonostante tutto, ringraziamenti alla VekkiaMaggio 2001

“Tuh tuh “. Sono fermo ad un passaggio a livello come tante altre mattine prima di andare a scuola. Il treno passa, intravedo alcuni compagni che, distrattamente, guardano fuori dal finestrino.Quanti anni ho passato fra le mura di una scuola! I vecchi compagni di classe appaiono nella mia mente, immutati nel tempo, come se avessero ancora l’età di quando li ho conosciuti.Gia, quindici anni sono pochi, dicono, ma così pieni di ricordi da sembrare un’eternità. Pensando al mio passato mi sembra di vivere una battaglia fra il bambino che ero, a che ancora un po’ sono, a l’adulto che dovrò diventare.

Le mie riflessioni vengono però interrotte da un avvallamento del terreno che rischia di farmi perdere l’equilibrio: sono arrivato al “parcheggio” della scuola che è in realtà uno spiazzo fangoso tutto a seni e a golfi, ove le ruote e i parafanghi delle auto possono insudiciarsi senza ritegno. Ormai dentro al solido (si da per dire) edificio scolastico, mi dirigo verso la biblioteca per consegnare un libro preso in prestito tempo addietro. Mentre cerco uno spazio per sistemarlo, noto un plico giallognolo sporgere da un polveroso scaffale. Mi avvicino, lo prendo e, con disinvoltura, scivolo fuori dalla stanza.Alla fioca luce della lampadina da 0,01 Watt del bagno, apro il manoscritto, intitolato “Ricordi di scuola”. Descrive i professori di una classe prima di un liceo scientifico, probabilmente degli anni ‘60, a giudicare dal colore della carta a dall’italiano poco corrente in cui è scritto.

Nell’atto di richiudere lo scartafaccio, per riporlo dove l’avevo trovato, mi faceva male che un racconto così bello dovesse rimanere sconosciuto a causa della sua forma poco scorrevole. Decido, quindi, d’aggiustarla, per quanto possibile, e di riportare l’essenziale della descrizione. Chissà, potrebbe tornarmi utile in qualche tema…

Il racconto si svolge in una scuola sgangherata e, anche lì, vi sono docenti che si lamentano per questo; prima di tutti la professoressa Gabbati, che incolpa un ministro, come dice lei, della Pubblica Distruzione d’aver ridotto la scuola ad un *** (l’autore omette la parola per pudore e anch’io decido di seguire il suo esempio). La descrizione si sposta quindi sul modo eccessivamente originale di vestirsi della docente. Ritenendo troppo fantasiosa tale descrizione (vi sembra credibile che una persona possa andare al lavoro in ciabatte e con le mani sporche di tinta per capelli?), la ometto. La professoressa Gabbati, molto preparata nella sua materia, ha una parlantina veloce e, troppo spesso, secondo l’autore, sputacchia. Difficile è rendere per iscritto la sua frase preferita così come lei la pronunciava: “gnoszsi zsauton” che, come il lettore saprà, significa “conosci te stesso”.

L’autore passa quindi a descrivere un personaggio di cui sembra avere la più alta stima: il professor Reda. Probabilmente discendente del famoso Francesco Redi, passato alla storia per avere preceduto di qualche secolo gli esperimenti del nostro barista che cerca di far “verminare” i würstel che mette nei panini degli ignari studenti, il professor Reda è un esempio vivente di razionalità assoluta.Insegnante di Fisica, spiega molto bene, stimola gli studenti a migliorare, applica con fermezza le leggi vigenti e, asserisce l’autore, nelle sue “arringhe” inserisce almeno due o tre dati di statistica: “Avevi il 33.3 % di possibilità d’azzeccarci e, come è vero che, in una legge binaria, a composto b uguale c, dovevi almeno motivare la tua risposta! “.

Suo socio nell’insegnamento della materia “Laboratorio di chimica – fisica” è il barbuto professor Campagnoli. Insieme, Reda a Campagnoli, fanno fare alle loro classi interessantissimi esperimenti nel massimo rispetto delle norme di sicurezza. “Certo – spiega Campagnoli – capita che qualche allievo metta le mani nelle provette dell’acido, o che ingerisca del paradiclorobenzene, ma, le statistiche lo garantiscono, il laboratorio è piu che sicuro”.

Appassionato di statistica a di multimedialità è anche il professor Pascal, insegnante di Informatica, che viene però spesso distratto da un suo altro interesse: le ragazze, giovani possibilmente. Infatti, sebbene ormai ultracinquantenne, non ha ancora deposto “L’ascia di guerra”.

Nel manoscritto compaiono quindi le descrizioni dei compagni di classe dell’autore. Purtroppo, per mancanza di tempo, non posso che trascrivere solo quelli che sembrano più interessanti. Aristofane, chiamato così per la sua abilità nell’improvvisarsi sapiente durante le interrogazioni, è noto per il suo ciuffo sporgente verso l’alto a per la sua avversione nei confronti del professore di Disegno, Cardano, inventore del suo soprannome.

Nella lista compare poi una certa Lecchini – l’autore non ne specifica il casato – che si distingue, come può forse suggerire il nome, per il suo smodato desiderio di farsi notare dai professori, attirando così le ire dei compagni. “In fondo – riflette l’autore – che male può mai fare? Vuol solo far sapere che c’e, che è viva, che Conta…”.

Ci sarebbero molti altri fatti, riportati nel manoscritto, da raccontare, ma una considerazione li deve precedere: queste persone hanno qualcosa di familiare, di conosciuto; come se nel lungo a tortuoso cammino della Storia vi fossero degli elementi che, periodicamente, si ripetono. Per quale affascinante gioco di rimandi un manoscritto di tanti anni fa ripropone storie di persone che sembrano usciti dal mio vissuto quotidiano? Forse ognuno di noi avverte il bisogno di superare la fisicità a la limitatezza delle trasformazioni chimiche che, come colpi di martello, scandiscono la nostra esistenza per lasciare, raccontando la propria storia, una traccia, un suono, una goccia nell’immenso mare che è l’insieme delle nostre esperienze.

Questa conclusione m’e parsa cosi giusta che ho pensato di metterla qui, come sugo di tutta la storia. La quale, se non v’e dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’e fattoapposta.

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